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I Film


Miele

di Valeria Golino, con Jasmine Trinca, Carlo Cecchi, Vinicio Marchioni
uscita in Italia: 1 maggio 2013


        Ci sono temi più scomodi di altri, e non solo perché sono così complessi che qualunque cosa si dica/qualunque posizione si prenda, si sbaglia per definizione: anche (soprattutto) perché vengono consumati dal chiacchiericcio diffuso, più o meno schierato/più o meno (fintamente?) liberale. Così che quando qualcuno li riaffronta, c’è per forza un pregiudizio da superare, delle serie “hai veramente qualcosa di nuovo e di utile da dirmi?”. È il caso del tema dell’eutanasia, tant’è che quando ho saputo che Valeria Golino – una delle poche attrici davvero intelligenti, davvero umili, davvero sensibili che ci siano in Italia – stava girando il suo primo film tratto dal romanzo di Mauro Kovacich, “A nome tuo”, che appunto parla di eutanasia, m’è scappato un “che peccato”. Alla faccia dei (in questo caso miei) pregiudizi, invece, il film è fantastico. Parla sì di eutanasia, ma non dai classici (ipocriti?) punti di vista “pro e contro”, invece dal punto di vista (apparentemente neutro) di una ragazza che quelle morti le provoca su commissione, come fosse una killer. Tutto procede liscio, anche da un punto di vista etico, fin quando non le viene assegnato un cliente che vuole morire non perché malato, solo (solo?) perché stanco di vivere. Secondo Miele (Jasmine Trinca, mai così brava e pure così bella) lui non avrebbe lo stesso “diritto” degli altri, ma è proprio così? Il film è dunque il tentativo di rispondere a questa domanda attraverso il rapporto che lentamente nascerà fra Miele e Carlo Cecchi, che riesce a dare al personaggio dell’aspirante suicida “per noia” una verità e una profondità inimmaginabili.


        Oltre alla storia il film – pur essendo fotograficamente curato – ha dalla sua il fatto di non cadere in autocompiacimenti stilistici: anche le inquadrature più ricercate hanno sempre una loro giustificazione semantica, mai sono delle semplici prove di bravura, e questo a dispetto di altri registi che in passato hanno anteposto il proprio ego “artistico” rispetto allo stesso tema. Per questo “Miele” mi sembra abbia la stessa semplicità e profondità di un piatto di spaghetti pomodoro e basilico di quelli seri, con pomodori di qualità e olio buono e pasta artigianale. Dove non ci sono effetti speciali, dove si sente l’amaro intenso dell’olio e la sua densità (che sa di problematicità); dove si sente l’acidità del pomodoro insieme alla sua buccia coriacea (che sa ancora di problematicità); ma dove c’è anche la dolcezza della pasta e la freschezza del basilico. Perché “Miele”, dopotutto, è un film che parla di morte per parlare di vita.

 

Marco Lombardi