I Film
TORONTO 2014: Time out of mind
di Oren Moverman, con Richard Gere, Steve Buscemi, Jena Malone
Ci vuole poco per scivolare giù nel baratro dell’abbandono di sé, diventando un barbone. Ce lo aveva già raccontato un bellissimo film di alcuni anni fa, “Hotel paura” (con Sergio Castellitto), ma questo “Time out of mind” (premio della critica all’ultimo festival di Toronto, il primo di una serie di riconoscimenti che sono certo conquisterà) è davvero un piccolo grande capolavoro. Perché non cede all’ipocrisia di una fotografia “sporca”, come se quello fosse l’unico modo (spesso soltanto furbo) per raccontare un dramma di questo genere. Perché non ritrae un barbone nato povero, bensì un borghese qualunque che, dopo la morte della moglie, perde lavoro-casa-figlia, questo a dirci che quella condizione che quotidianamente emarginiamo potrebbe essere un giorno la nostra. Perché non crea un “personaggio vittima” che ci costringe a stare per forza dalla sua parte, bensì un uomo che continua a incolparsi dicendo “ho mandato a puttane la mia vita”. Perché quando nel finale reincontra (con uno spirito nuovo) la figlia che sempre l’aveva scansato, la “speranza” non viene rappresentata in modo consolatorio, ed è pure visivamente bella (ricordando la scena che conclude “La vita d’Adele”). Perché Richard Gere mette a rischio una fama da sex symbol per mostrarsi “sporco, brutto e cattivo”, con un coraggio che già da solo – oltre alla splendida interpretazione – meriterebbe un premio Oscar.
“Time out of time” sembra un croccante alle mandorle, di quelli così duri che a mangiarli rischi di spaccarti i denti. La vita del protagonista era sì dolce, ma questo dolce ha finito per addensarsi così tanto da diventare durezza, di quelle che non si spezzano. Solo con calma e tenacia quella durezza la si potrà sciogliere, senza provare a romperla, così da risentire di nuovo il gusto del dolce. Anche l’amaro delle mandorle, certo, ma a quel punto solo di sottofondo, e solo per rimarcare a contrario il bello della vita.
Marco Lombardi