I Film
CANNES 2012: Cosmopolis
di David Cronenberg, con Robert Pattinson, Sarah Gadon, Paul Giamatti e Juliette Binoche
Il cinema di Cronenberg è allappante, da “La mosca” a “Inseparabili” a “Madame Butterfly” a “Spider”: parla di emozioni forti subito asciugandole, come si stesse bevendo un rosso di struttura il cui forte tannino ti asciuga totalmente la bocca, lasciando ai tuoi sensi un tempo minimo per elaborare e “ritenere”. Lo stesso succede con questo suo ultimo film, tratto dall’omonimo romanzo di Don De Lillo, con la differenza che il rosso in questione questa volta è più allappante che di struttura, così da trasmetterti un senso di asciugatura e basta. Di cerebralità fine a sé stessa, con meno cuore del solito, forse a causa del fatto che questa volta il progetto del film non è nato da Cronenberg. Ecco perché “Cosmopolis” mi fa pensare a certi rossi sudamericani, in particolare argentini, dove il legno e l’alcool finiscono per prendersi tutto, come dicono gli Abba in “The winner takes it all”.
La storia è quella di un ventottenne multimilionario che vive nella sua Limousine, lontano da un mondo che crede di poter controllare, così confuso da apparire virtualmente reale. Nel semplice viaggio che il protagonista intende fare per andare dal barbiere, riceve nel suo microcosmo vari simboli della contemporaneità, uscendo dalla macchina solo per degli incontri fugaci con la sua giovane moglie all’interno di un rapporto che è morto prima ancora d’essere cominciato. Basterà però un’oscillazione monetaria per far comprendere al protagonista quanto il suo senso di onnipotenza sia vacuo e imperfetto, proprio come la sua prostata che il medico, in uno dei tanti check up quotidiani che si fa fare sempre in macchina, scopre essere asimmetrica. In molti lo vorrebbero uccidere, questo giovane modello perfettamente imperfetto. A partire da lui stesso.
C’è anche del meta cinema, in “Cosmopolis”, perché il protagonista è il vampirello Robert Pattinson, quello di “Twilight”, che carica su di sé molti miti gommosi del mondo che viviamo. Ma anche in lui manca quello spessore che a parole vorrebbe raccontare, così che quando – in una scena – si ferisce al braccio, il colore scuro del suo sangue fa ripensare a quel rosso troppo tannico per la poca struttura che ha.
Marco Lombardi