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I Film

Porco rosso
Soggetto, sceneggiatura e regia: Hayao Miyazaki
uscita in Italia: 12 novembre


“Finirai come un maiale arrosto!”, e a parlare non è Don Alfonso, e neanche Massimo Bottura, e tantomeno Davide Scabin, al momento di chiudere il forno delle rispettive cucine. È invece Gina, una cantante da tempo innamorata di un affascinante aviatore che, per colpa di un maleficio, s’è trasformato in un porco, e il cui aereo è rosso come quello del Barone nemico di Snoopy. Il paragone con le celebri strisce di Schultz forse non è peregrino perché sto appunto parlando del film – “Porco rosso” – di uno dei maestri dell’animazione di sempre, Hayao Miyazaki (quello della Principessa Mononoke, e La città incantata, e Ponyo sulla scogliera), un film che esce solo ora nelle sale italiane – è del 1992 – pur essendo ambientato lungo l’Adriatico in epoca fascista, e pur contenendo mille richiami alle nostre città – da Milano a Torino a Venezia. Perché Gina dice questo a Porco rosso? perché il suo eroe non ce la fa proprio a non mettersi sempre in mezzo a delle avventure ai limiti dell’impossibile pur di coltivare la sua passione romantica per il volo e le imprese “giuste”, nel senso dell’etica. E perché il suo “creatore” è sempre stato legato all’aereonautica, come bene testimoniano le sue origini familiari (il padre progettava i caccia giapponesi) e la sua ammirazione per l’Antoine de Saint-Exupéry de Il piccolo principe.
Come tutti i film di Miyazaki, “Porco rosso” si snoda attraverso un’orgia di colori, e situazioni surreali, e personaggi teneramente solitari. In mano a un altro autore questa tavolozza di profumi e sapori rischierebbe d’implodere, proprio come certi piatti di certi chef dove la tecnica, e “l’ansia del nuovo”, finiscono per cannibalizzare il piatto stesso; Miyazaki ha però dalla sua l’ispirazione, e il cuore, e la sincerità, così che anche questo “Porco rosso”, nonostante la saturazione espressiva, finisce per essere un’opera che vola via leggera, con (malinconica) poesia.
A film visto, e tornato a casa, mi sono aperto un Moscato di Voerzio. Il perché l’ho capito dopo: quel vino, come il film, alla faccia del suo elevatissimo livello zuccherino, non è mai stucchevole, anzi, freschissimo e pure complesso, nel suo raccontarci tutte le possibilità dell’”essere dolce”.

Marco Lombardi


Potiche